Reportage

Placemaker: gli innovatori urbani che trasformano i luoghi e le persone

di Marilù Ardillo
Placemaker: gli innovatori urbani che trasformano i luoghi e le persone

Negli ultimi tempi molti innovatori urbani stanno operando nelle città: stanno ripensando la relazione tra città e natura, tra spazi pieni e vuoti. 
Si tratta di professionisti ibridi, capaci di conciliare bisogni con immaginazione, creatività con la salute del corpo sociale che vive la città. Sono mossi da una curiosità libera e creativa e per questo trovano le soluzioni piú adatte. Osano pensare di poter fare qualcosa che non è mai stato fatto prima.
Elena Granata, architetto urbanista, professore associato di Urbanistica al Politecnico di Milano e già ospite di uno dei nostri Caffè Verdi  in cui abbiamo parlato del suo libro Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibli che cambiano il mondo, li ha definiti «placemaker», perché la loro attitudine è saper trasformare una buona idea in un progetto vivo che trasforma un luogo.
Le abbiamo chiesto allora di raccontarci più a fondo, in una bellissima intervista esclusiva, il suo ultimo progetto letterario intitolato per l'appunto "Placemaker. Gli inventori dei luoghi che abiteremo", Ed. Einaudi. 
L'auspicio è quello di offrire spunti e ispirazioni, soprattutto alle giovani generazioni, per comprendere come prendersi cura di spazi e persone, come ripensare un cambiamento ecologico necessario che si traduca in un cambiamento di paesaggio, di spazi e comunità. 

Cara Elena, come si impara a capire e sentire una città?
Tutto comincia quando cominciamo a guardarci intorno, a osservare le cose intorno a noi, a sentire che ci riguardano, a comprendere perché le città, i paesaggi, i contesti di vita si presentano in quelle forme, a formarsi un giudizio critico, a immaginare che i luoghi possano migliorare anche con il nostro lavoro.
Il lavoro di osservazione, l’esperienza dei luoghi, non è mai fine a se stesso, richiede senso critico e capacità di andare oltre, ma soprattutto la capacità di capovolgere luoghi comuni e credenze per cogliere le possibilità di mutamento.
Sono tre gli ingredienti che non possono mancare in un percorso di formazione alla città e al territorio: l’intelligenza dei luoghi (come comprensione del mondo e produzione di pensiero), l’esperienza della realtà (come consapevolezza che interpella il nostro corpo, la nostra mente, le nostre sensibilità, le nostre vite, le nostre relazioni, le nostre visioni del mondo), l’immaginazione (come possibilità di scegliere, di prendere parte, di decidere da che parte stare, di spendersi perché le cose cambino in meglio). Questa attitudine all’osservazione può essere coltivata, affinata nel tempo e valorizzata; è capacità di riconoscere segni specifici e di connetterli entro un sistema di significati, è capacità di trascendere la lettera per coltivare l’immaginazione. 


Chi è il placemaker?
Il designer dei luoghi, non è uno scienziato, ma è spinto dal desiderio di osservare la realtà per comprenderla. Non è neppure un artista in senso tradizionale, ma guarda il mondo con empatia. Non è un architetto, né un politico, né un imprenditore ma ha la capacità di trasformare un’idea in un progetto, di pensare cose impossibili e, soprattutto, di farle accadere.
Reintegra la natura in contesti urbani, riforesta e ripristina ecosistemi, progetta soluzioni ispirate alla natura per contrastare i cambiamenti climatici, ricuce periferie sconnesse, reinventa borghi abbandonati. Si cimenta con gli scarti delle città, con i muri ciechi e i capannoni inutilizzati, con gli spazi aperti e vuoti. Non agisce solo sugli spazi fisici ma anche sui comportamenti umani e sulla natura, sui sentimenti e gli stili di vita. Agisce entro un processo sottrattivo e sostitutivo che però non ha nulla della rinuncia o della decrescita felice. Non ha nulla ha a fare con i sentimentalismi e con l’idealismo; opera nel più grande spazio economico su cui dovremmo investire.

Nel libro ha raccontato vari esempi di placemaker, quai Eva Koch, Daan Roosegaarde e molti altri. Cosa serve per trasformare una buona idea in un progetto vivo capace di trasformare un luogo?
Dan Roosegaarde, nativo del piccolo villaggio di Nieuwkoop in Olanda, è un designer di luoghi che oggi lavora come designer nel suo bellissimo studio a Rotterdam. Nel suo repertorio di opere, tra la poesia e la scienza, troviamo l’autostrada intelligente che usa pittura fosforescente che assorbe la luce di giorno e la rilascia di notte, gli aspiratori per spazi pubblici che catturano particelle inquinanti usando l’energia eolica, un sistema a led ad alta intensità che illuminano i campi di notte e facilitano la crescita delle piante e con l’utilizzo di raggi ultravioletti ne attivano il sistema di difesa, riducendo l’uso dei pesticidi. 
Eva Koch, non è una poetessa, non è attratta dalla meraviglia che la natura ispira in sé; non è una designer e non è nemmeno interessata come Daan Roosegaarde a cogliere il meccanismo replicabile; è una scultrice che lavora con l’immateriale, con la luce, il buio, i suoni. La sua arte può esprimersi solo nello spazio aperto, nella natura, in dialogo con paesaggi naturali e urbani. È una paesaggista che si esprime realizzando piccole colline artificiali negli spazi urbani, adatti al gioco dei bambini. La scultura abbandona la dimensione dell’oggetto e diventa materia plastica per rimodellare i luoghi quotidiani delle persone. Mescola la dimensione ludica con la modellazione degli spazi pubblici e l’attenzione ai cambiamenti climatici, la scienza con l’arte, l’urbanistica con la tecnologia. Nel libro nei nomino molti altri, tutti legati da una forte capacità di azione nei luoghi, non propongono soluzioni astratte ma partono dai bisogni e dalle risorse dei luoghi e delle comunità.
Agisce e pensa da placemaker anche Antonio Loffredo, parroco al rione Sanità a Napoli, che ha trasformato la sagrestia della basilica seicentesca di Santa Maria della Sanità in una palestra di box e, quando serve, anche in un ring, dove si allenano i ragazzi del quartiere o che ha avviato il recupero delle Catacombe, trasformando un luogo abbandonato in occasione per riqualificare spazi, generare bellezza, attivare cooperative edilizie e turistiche, promuovere cultura. 
Loffredo non inventa nulla, ricuce, apre spazi, attiva processi, si muove tra una dimensione creativa a una imprenditoriale, perché capisce che se le idee non diventano progetti, imprese, posti di lavoro, cambiamento reale nelle vite delle persone, le idee non servono a nulla.

La creatività può essere considerata il vero motore di questa azione trasformativa?
Direi proprio di sì. Io preferisco parlare di immaginazione, che non è solo la capacità creativa di inventare cose nuove, ma è lucida visione della realtà, consapevole e critica, capace di cogliere gli elementi da cui partire, con i quali rovesciare un problema nella sua soluzione.
Oggi le sfide sono chiare. La crisi climatica ci chiama a lavorare sui temi della forestazione, delle acque, dell’energia, dell’autonomia alimentare e delle salvaguardia del suolo e degli ecosistemi, la crisi pandemica ci sfida sul fronte della salute collettiva, richiamandoci ad un impegno nei territori, la crisi sociale e la crescita delle diseguaglianze ci chiede di essere meno disincarnati e più attenti alle economie locali, al cambiamenti nel campo del lavoro, ai luoghi dell’educazione (non solo il progetto delle scuole, ma di tutti i luoghi di formazione).
I verbi di cui dobbiamo impadronirci sono: rigenerare, riportare la natura in città, ri-significare luoghi che hanno perso significato, riattribuire valore. È tutto un lavoro di ripensamento, di riattribuzione di anima e di valore, che ci porta a lavorare di più sulle dimensioni relazionali, sul valore della comunità, sulla felicità delle persone. E tutto parte da una ritrovata capacità di immaginare che le cose possono cambiare e che i contesti intorno a noi non debbono rimanere sempre uguali a se stessi.

Di quali capacità di innovazione avremmo bisogno?
Quella creatività dirompente che vediamo in tanti campi artistici e culturali e che si esprime come una capacità di uscire dai canoni e di rimescolare i saperi, sta attraversando anche l’architettura, l’urbanistica, il design dei luoghi, il paesaggio. Solo gli accademici di stretta osservanza chiusi nelle loro accademie, non si sono accorti di quanti nuovi personaggi siano impegnati nelle trasformazioni dei luoghi, delle città, dell’abitare. Personaggi che non si sono mai seduti un solo giorno nelle loro aule piene. 
Non si sono accorti di quanto spazio creativo abbiano guadagnato i designer, fratelli minori, un po’ oziosi e spensierati, delle discipline dell’architettura.
Oggi i designer non sono più anonimi personaggi da retrobottega il cui compito è quello di produrre forme senza funzione o nella migliore delle ipotesi conferire grazia e bellezza a forme utili per la vita quotidiana. Si muovono in una disciplina ibrida che unisce arte e scienza, ricerca e esperimento, tecnologia e natura. In questo somigliano a Leonardo da Vinci e a Brunelleschi nella loro infaticabile ricerca di soluzioni che rispondano alle domande più cruciali del nostro tempo, senza separare l’arte dalla scienza. 
Tempi di vita, organizzazione familiare, assetti delle città, crisi di alcuni settori economici e nascita di nuove economie, tutto è strettamente legato e richiede di essere ripensato. Abbiamo ereditato dal passato assetti urbani organizzati intorno a relazioni di tipo spaziale: sia la città fabbrica che la città del terziario è definita da grandi contenitori di funzioni (uffici, banche, servizi) e con una separazione stretta tra tempo/spazio di lavoro e tempo/spazio di vita. Se il lavoro individuale si svincola dal legame con luoghi collettivi, diventa mansione o obiettivo che ciascuno può svolgere altrove, in autonomia e isolamento, è evidente che gli impatti più evidenti li vediamo proprio nei contesti urbani prima più dinamici e evoluti.
Queste domande hanno bisogno di figure nuove capaci di interpretarle. Non si tratta più solo di costruire, pianificare, progettare il nuovo - competenza che fino ad ora abbiamo delegato a ingegneri e architetti e ancor più spesso alle messianiche figure delle archistar - dovremo lavorare sul senso, sui tempi di vita, sull’organizzazione di una mobilità più efficiente ma anche più sostenibile, sull’integrazione delle attività umane con quelle della natura.

E che cosa resta da fare agli architetti? Quale è la loro responsabilità civile?
Il sapere tecnico si è spesso accontentato di far ricadere il proprio operato entro i confini della legittimità normativa, preoccupandosi poco di capire, di ascoltare, di sentire quali forme prendesse la vita delle persone, le loro domande profonde, i loro malesseri. Il ruolo del progettista si è così ridotto sempre più a pratica di notaio, indifferente alle storie locali e spesso sensibile ai poteri criminali attivi in molti contesti. Oggi è necessario un passo supplementare. Ciò che sta accadendo alla Terra, il cambiamento rapido nei modi di vivere, l’inquinamento, la perdita di biodiversità, i mutamenti climatici, la questione dell’acqua (accesso, distribuzione, diritto), l’inquinamento dei mari hanno un impatto pesantissimo sulla qualità della vita umana e sociale, che solo in questi giorni - sembra - stiamo tutti cominciando a comprendere.
L’architetto non può rispondere solo alla sua visione estetica, al suo sapere, ai suoi committenti ma anche ai cittadini. Lì sta la sua responsabilità civile. Lì deve dimostrarsi capace di concepire l’architettura come una “seconda natura” (espressione che Goethe coniò nel suo viaggio in Italia, al vedere paesaggio, natura e città felicemente interrelate), capace di integrare il manufatto con il paesaggio, producendo uno spazio sociale che rispecchi l’economia, i valori e la cultura di questo tempo. Capace di rispondere alle domande di senso delle persone.


Come saranno gli spazi che abiteremo?
Saranno sempre più ibridi, promiscui, plurali. Se nostra vita collettiva è stata da tempo ordinata per scatole e comparti, oggi sentiamo che non sono più appropriati. L’apprendimento e l’educazione sono affidati alle scuole, l’arte ai musei, la natura a parchi e giardini, la salute agli ospedali, lo sport a palestre e piscine, il sacro alle chiese. Questo modello di organizzazione per luoghi e funzioni dedicate, nato solo alla fine dell’Ottocento, ha definito la forma delle nostre città su funzioni che oggi sono in parte mutate o appaiono distanti da come le cose funzionano davvero. 
Se l’arte diventa immateriale oppure installazione temporanea oppure dialogo con la natura, sono ancora i musei i luoghi capaci di promuoverla o lo diventano le piazze e i giardini delle città? Se la salute ha a che fare con il corpo nella sua multidimensionalità ed è quindi connessa con l’ambiente, la qualità dell’aria, il benessere sul lavoro, la qualità delle relazioni umane, può essere relegata ad un luogo che cura solo la malattia al suo manifestarsi? Sono le aule, con banchi distanziati e rivolti verso la cattedra, i luoghi più adatti ad un apprendimento interattivo, mutuo e stimolante? A coltivare quelle “teste ben fatte” di cui ci parla Edgar Morin, capaci di empatia, senso critico e capacità collaborativa?*
I modelli spaziali che abbiamo ereditato non sono più in grado di interpretare l’evoluzione delle nostre vite, il modo in cui sentiamo di dovere ripensare l’educazione, la salute, l’accesso alle arti, persino il consumo e il tempo libero. 
Abbiamo separato la cura del corpo da quella dell’anima, siamo diventati bravissimi a sanare le nostre ferite senza capire che la persona è una e che la sofferenza non è sempre legata al corpo e alla malattia. Oggi ci misuriamo con una profonda domanda di ricomposizione tra corpo e mente, ma anche tra salute del pianeta, salute delle persone e degli animali.


Gli autori che hanno lasciato il segno più profondo nella sua formazione sono accomunati da un tratto comune: "la capacità di migrare da una disciplina all’altra con libertà, di stare al margine e sulla soglia del proprio sapere, della propria identità e professione, aperti alla contraddizione”, scrive così in un passaggio del suo libro. Quali ricorda in modo particolare? 
Se penso agli autori della biblioteca di casa, a quelli letti durante gli anni del liceo, dell’università o durante l’attività di ricerca, posso dire che quelli che hanno lasciato il segno più profondo nella mia formazione avevano, pur diversi, un tratto in comune: la capacità di passare da una disciplina all’altra con libertà, di uscire dai confini, di rovesciare i punti di osservazione. Come Primo Levi, in cui non è possibile scindere l’osservatore dal testimone, lo scrittore dallo scienziato, l’italiano dall’ebreo. Come Hannah Arendt, che ha saputo intrecciare l’attività del pensiero con la concretezza dei corpi e dei legami tra le persone. Come Charles Darwin, che ha passato la vita a estrarre l’ordine dal groviglio, meravigliandosi del misterioso legame fra la propria ragione e l’universo. E come ancora, in modi sempre diversi, Pavel Florenskij, studioso di arte, di alghe, di lingue, Martin Buber, attento lettore delle relazioni umane, Giancarlo de Carlo, urbanista sensibile allo spazio e alla società, Maria Montessori, Tagore, Martha Nussbaum, Edgar Morin che in modi diversi hanno gettato luce sull’educazione, Richard Sennett, che spazia dalla città, alle organizzazioni, ai saperi artigiani.

Che ruolo ha avuto la pandemia in questo desiderio di cambiamento radicale?
La pandemia ha tolto l’ultimo velo di ipocrisia sulle nostre vite urbane: non sono abitabili città dove predominano le automobili sullo spazio di pedoni e ciclisti, dove siamo soffocati dall’inquinamento dovuto al traffico e al consumo di suolo, dove i tempi di vita sono organizzati intorno a picchi orari incompatibili con la varietà degli stili di vita. 
Chiusi in casa, privati dell’accesso ai parchi, alle piazze, alle spiagge, ai sentieri di montagna abbiamo capito che la nostra salute oggi dipende proprio da quegli spazi. Salute e benessere dipendono da quanto spazio aperto pubblico e naturale ha a disposizione ogni cittadino e da quanto ne potrà disporre in futuro. 
Le città sono piene di spazi vuoti - brutti o belli poco importa - che rimangono vuoti e senza vita perché non rispondono alle esigenze delle persone, di chi vi risiede o semplicemente li attraversa, perché non invitano ad alcun tipo di uso o comportamento.
Oggi vale la pena di investire su azioni immediate, tempestive e diffuse che colgono l’occasione della crisi sanitaria per riscrivere la grammatica di alcuni luoghi urbani: in particolare quella degli spazi connettivi, delle strade - che oggi sono per la gran parte destinate alle auto, sia ferme che in movimento - delle piccole piazze di quartiere, dei grandi e piccoli parchi urbani. 

È cresciuta moltissimo in questi anni l’attenzione alle città da parte delle donne studiose di urbanistica, soprattutto in America Latina, dove la questione di genere ha ispirato studi, progetti e percorsi progettuali”.
Un’urbanistica pensata dalle donne ha un valore aggiunto? Se sì, quale? 
È un pensiero strategico quello femminile, non solo capace di cura e accudimento, è un pensiero sulla città che spesso nasce da un impegno diretto di sindache e amministratrici e che comincia a depositare esperienze, visioni, progetti, prima impensabili.
Penso a città governate da donne come Ada Colao, sindaca di Barcellona dal 2015 che ha improntato la sua amministrazione ad un grande ascolto e coinvolgimento dei cittadini e poi una serie di nuove sindache elette negli ultimi anni, con un intensificarsi del fenomeno dal 2018: tra le più interessanti per l’impronta di cambiamento che stanno dando alle loro città ricordiamo London Breed sindaca di San Francisco, Claudia Hernandez di Bogotà, LaToya Cantrell di New Orleans, Lori Ligthfoot di Chicago, Femke Halsema di Amsterdam e Souad Abderrahim di Tunisi. Anne Hidalgo sindaca di Parigi eletta per la prima volta nel 2014 e poi una seconda nel 2020 si è distinta per avere riportato a Parigi con forza i temi ambientali e della qualità degli spazi pubblici.
Parigi, Barcellona, New Orleans: per la prima volta esse dimostrano di saper esprimere un pensiero strategico e logiche di tipo macroeconomico, di saper gestire emergenze sanitare e visioni di lungo periodo, liberandosi di quell’immaginario socialmente rassicurante della cura materna (da servizi sociali) che ne ha spesso accompagnato le carriere. La Bogotà della Hernandez è l’unica città al mondo ad avere programmato con grande lungimiranza un vero e proprio lockdown di simulazione di una settimana, prima che arrivasse la pandemia in Colombia, volto a verificare e studiare preventivamente gli impatti sulla città.


In cosa consiste il metodo The Power of 10+ e in che modo può coinvolgere i cittadini per conferire valore ad un luogo?
“The Power of 10+” è una metodologia sperimentata dal Project for Public Spaces in alcune cittadine americane; un gioco che diventa coinvolgimento delle persone e sfida creativa proprio là dove i contesti urbani sono più depressi. 
Devono esserci almeno 10 buoni motivi perché un luogo sia vivibile. Una piazza funziona se le persone hanno 1) un posto dove sedersi, 2) giochi per i bambini, 3) musica, 4) cibo da condividere, 5) persone da incontrare, 6) negozi aperti, 7) una buona illuminazione, e così via. 
Le strade e le fermate dei mezzi pubblici, per esempio, hanno sempre il potenziale per diventare luoghi con 10 cose da fare. Un parco funziona se oltre alla natura c’è una grande fontana, un parco giochi e un venditore di popcorn. Se c’è pure una biblioteca dall’altra parte della strada è ancora meglio. Se poi c’è anche un bar sul marciapiede nelle vicinanze, una fermata dell’autobus, una pista ciclabile e una gelateria, allora le potenzialità di quel luogo crescono; è un metodo che facilmente coinvolge le persone con proposte, suggerimenti, idee e che, al di là della sua semplicità un pò manualistica, rinvia ad una dimensione più profonda. È la mescolanza, la biodiversità, l’opportunità di fare più cose contemporaneamente, che conferisce valore a un luogo. Sembra banale dirlo, sembra di raccontare qualcosa di assolutamente ovvio per tutti ma se le nostre città sono così povere di spazi di qualità forse è perché qualcosa non ha funzionato. E questo tema, nella formazione degli architetti, è stato spesso liquidato come un inutile passatempo.

I “boschi saranno le fabbriche del futuro”? Quali sono le azioni e le politiche che possono portarci lungo questa direzione?
Penso alla storia di resistenza di Yvonne Aki-Sawyerr sindaca di Freetown in Sierra Leone. Nel 2015, a pochi giorni dalla fine dell’epidemia di Ebola si trova a guidare nella periferia della sua città e viene sconvolta dalla vista della devastazione di gran parte della copertura forestale: per la prima volta si trova a toccare con mano gli effetti dei cambiamenti climatici, l’impatto della crescita urbana per nuclei informali che porta alla distruzione di interi segmenti di foreste per fare spazio agli insediamenti umani e poi la fragilizzazione del territorio, dovuta alle frane e alle inondazioni. Perdere la foresta non significa solo perdere natura, ma la possibilità stessa di sopravvivere in molte regioni della terra. 
Anche in Italia è certamente cresciuta l’attenzione verso il degrado del suolo, così come la richiesta di interventi di rinaturalizzazione delle città, così da avere una migliore resilienza climatica, più risorse idriche e più biodiversità. Da un lato, si sottolinea la necessità di ridurre a zero il consumo di suolo, intervenendo con progetti di rigenerazione urbana sull’edilizia esistente senza compromettere ancora i suoli agricoli rimasti, dall’altro si promuovono interventi di riforestazione urbana per assorbire le emissioni urbane di combustibili fossili; foglie e radici di un albero maturo assorbono anidride carbonica attraverso la fotosintesi e contribuiscono a ridurre gli inquinanti presenti nell’aria. 
Ma quanti anni ci vogliono perché gli alberi che piantiamo raggiungano la loro maturità e consentano di regolare le alte temperature in estate (riducendo le isole di calore), mantenendo le città più fresche e migliorando la qualità della vita dei residenti? 
Oggi sono necessarie azioni convergenti. Non possiamo proseguire con l’idea che basti fare qualcosa, perché qualcosa è sempre meglio di niente. Una politica della transizione ecologica non può che lavorare sulle ridondanze e sulle capacità di amplificazione che ogni singolo intervento suscita quando si integra con altri interventi: proteggere i suoli e investire sulla rigenerazione urbana, aumentare le isole pedonali e le zone a traffico limitato e intervenire sulla riforestazione urbana, intervenire sul sistema della mobilità e integrare nuove energie sostenibili, riorganizzare il ciclo dei rifiuti e facilitare gli interventi sul patrimonio edilizio, ripensare i tempi delle città e costruire piste ciclabili. La transizione sta in tutti quelle e, congiunzioni che ci costringono a ripensare ai sistemi nel loro insieme, a utilizzare la nostra intelligenza connettiva senza proporre inutili interventi di tamponamento. 


Come possono le nuove generazioni diventare apprendisti placemaker? 
Se le nostre carriere di studio saranno ancora a lungo impostate su percorsi definiti di apprendimento (l’architetto, l’ingegnere, l’agronomo, l’ecologo) e strutturate attraverso modalità didattiche unidirezionali, dove il docente “spiega” i contenuti di una disciplina data, aspettandosi che lo studente ripeta pedissequamente quello che dovrebbe aver memorizzato, continueremo a formare teste poco attrezzate alla natura complessa dei problemi che dovremo affrontare. 
Un modello costruito su una relazione eterodiretta (io ti spiego - tu recepisci - un giorno applicherai quello che ti ho insegnato) è tanto obsoleta quanto devastante per le capacità creative, per sviluppare autonomia e senso critico nei ragazzi fin dalle loro prime esperienze formative. 
Dobbiamo mostrare loro esperienze concrete e possibili di cambiamento, fonti di ispirazione. Abituare i ragazzi a misurarsi con i problemi di oggi, quelli fuori dalla porta di casa o a migliaia di chilometri da qui, abituarli a guardare i problemi perché dobbiamo essere molto lucidi nell'analisi, per diventare capaci di trovare insieme le soluzioni. Abituarli ad allenare la loro immaginazione, che è la libertà di pensare che le cose non sono date una volta per sempre, che possiamo cambiarle, possiamo produrre nuove visioni, nuove idee di abitare, nuove forme di amicizia con la natura. E possiamo farlo senza chiedere il permesso a nessuno.



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FONDAZIONE VINCENZO CASILLO
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